I

IL PROBLEMA CRITICO DEL «FURIOSO»

Al centro della tensione poetica dell’Ariosto, di cui abbiamo considerato finora le direzioni espressive della esperienza lirica, teatrale, satirica, si trova l’imponente creazione del poema cavalleresco e romanzesco in ottave, l’Orlando Furioso[1], il capolavoro dell’Ariosto e insieme il capolavoro della poesia rinascimentale.

Già tra il 1500 e il 1504 l’Ariosto aveva iniziato un capitolo in terzine d’argomento epico (la guerra tra Filippo IV il Bello di Francia e Edoardo I d’Inghilterra) legato alla volontà cortigiana di esaltare Obizzo da Este, antenato dei suoi signori. Ma quel tentativo di epica tutta seria fu abbandonato dopo circa duecento versi, e solo nel 1507 abbiamo, da una lettera di Isabella d’Este-Gonzaga al fratello cardinale Ippolito, la prima notizia sicura della ideazione ormai completa del Furioso, di cui il poeta narrò il contenuto alla marchesa di Mantova, presso cui si era recato a felicitarsi per la nascita del figlio Federico, e che ebbe a passare cosí «dui giorni non solum senza fastidio, ma cum piacere grandissimo». Nel 1509 la prima stesura del poema in quaranta canti doveva essere terminata, anche se la sua pubblicazione avvenne solo nel 1516 (22 aprile, per i tipi di Giovanni Mazzocco di Bondeno) e ancora nel 1512 l’Ariosto scrivendo al marchese di Mantova parlava del suo libro come ancora non «limato né fornito».

Ma già nel 1519 il poeta annunciava all’Equicola di aver cominciato a fare «un poco di giunta» al poema, che veniva ripubblicato in una seconda edizione nel 1521 (dal tipografo Giovan Battista de la Pigna, milanese), mentre la terza edizione, accresciuta di ben sei canti e completamente riveduta nella lingua e nello stile, usciva nel 1532 (presso Francesco Rosso da Valenza), e già subito dopo di essa l’instancabile e insoddisfatto poeta pensava di fare ancora altre aggiunte e revisioni.

Notizie queste che ben documentano il carattere di un impegno lunghissimo, assiduo, che coincide con la maturità e la senilità del poeta sino agli ultimi giorni della sua vita, di cui il poema aveva assorbito le forze piú intime e profonde, in anni che insieme corrispondono allo svolgimento piú intenso del Rinascimento nella sua forza piú matura e fervida e prima della codificazione dell’aristotelismo, prima dell’assoluto predominio spagnuolo, prima del rinchiudersi dell’Italia su se stessa col Concilio di Trento e la Controriforma.

A rendersi meglio conto della grandezza e della complessità della poesia ariostesca nella espressione suprema dell’Orlando Furioso, giova una rapida delineazione della critica che nel corso dei secoli si è applicata a intendere e valutare quello che è il capolavoro poetico del Rinascimento e insieme una delle opere piú grandi e piú geniali della poesia di ogni tempo; e che, perciò, ha costituito uno dei problemi critici piú ardui e difficili, e tuttora, malgrado la mole degli studi e delle interpretazioni, ben aperto e singolarmente vivo, affascinante, bisognoso di nuovi approfondimenti.

Difficoltà che deriva (si pensi al caso in qualche modo analogo del grandissimo Mozart) dalla stessa varietà e complessità di toni e motivi del Furioso, dalla apparente mancanza in esso di un «messaggio» esplicito, di ordine intellettuale e contenutistico, dalla perfezione stessa della sua totale resa artistica che poté provocare a volte opposte ammirazioni su di un piano di semplice godimento o dubbi ed esitazioni sulla sua «miracolosa» bellezza alla luce di opere piú scopertamente impegnate in prospettive storiche, ideali, morali tanto piú facilmente individuabili.

Piena ed entusiastica fu l’adesione al Furioso da parte del Cinquecento rinascimentale, che vi ritrovava potenziate fantasticamente le sue esigenze di bellezza e di armonia estetica e linguistica, di platonismo e di realismo, di unità libera e varia, di suprema evidenza figurativa.

Et pinge una cosa cosí bene

che ti pare d’averla avanti gli occhi[2],

dirà il Doni, insistendo proprio sulla naturalezza e sull’evidenza di rappresentazione dell’Ariosto.

Trasparisce, alla lettura delle osservazioni critiche dei contemporanei, al di là di generiche formule ammirative, una larga consapevolezza dell’ordine interno del poema, una viva comprensione per la sua ricchezza di esperienza sentimentale e di vita degli affetti – senza quell’eccessiva insistenza sulla coerenza drammatica dei personaggi su cui punterà piú tardi parte della critica –, un’attenzione sicura alla «piacevolezza» dell’opera, strettamente congiunta con saggezza ed esperienza, e mai declinante a comicità fine a se stessa.

E mentre il Furioso si diffondeva rapidamente dalle corti al popolo (sul doppio piano di edizioni sontuose e preziose e di edizioni popolari economiche), entro il mutare del gusto e della civiltà del secondo Cinquecento esso fu l’opera piú accanitamente difesa dai continuatori della linea rinascimentale e dai cruscanti, i quali ultimi vedevano in esso, regolarizzandone eccessivamente i vari aspetti, un modello di perfezione formale e linguistica, contro le critiche dell’aristotelismo che gli rimproverava la mancanza di unità e contro il Tasso, che col suo poema aveva creato una dimensione assolutamente diversa, aderente ad una civiltà già tanto lontana da quella che aveva visto sbocciare il capolavoro ariostesco. Tra i continuatori della linea rinascimentale nell’ammirazione per il Furioso, tra la fine del secolo e il Seicento, particolare rilievo ebbe il grande Galileo, affascinato dalla trama di acuta intelligenza che regge la libertà della fantasia ariostesca, dal rigore e dal calcolo che l’Ariosto adibiva alla sua costruzione pur cosí naturale, concreta, contrapposta dal grande scienziato, con sicura scelta di gusto, anche se con eccesso di pregiudiziale in vigore polemico, all’«artificiosità» della poesia del Tasso.

Ma la sempre crescente fortuna della Gerusalemme Liberata e il pieno trionfo del moralismo della Controriforma, con la modificazione del gusto in senso ormai pienamente barocco, finiranno per segnare, nel Seicento, una significativa limitazione o condanna del poema ariostesco per la sua presunta immoralità, irreligiosità, disorganicità, mancanza di «decoro» e di solennità, con punte curiose di ipercritica pedantesca e cavillosa (che non escludeva magari, in alcuni, un accostamento ad una valutazione positiva di certi elementi «affettuosi» e «patetici»).

L’amore per il Furioso riprende invece nel Settecento, che offre le prime piú concrete formulazioni critiche riconoscendo e accentuando nel poema ariostesco il fondo di esperienza e di naturalezza umana, il suo spregiudicato spirito di libertà intellettuale, l’unione del «credibile» e del «mirabile», della «lieta follia» e della saggezza senza moralismo, la sua spontaneità e inventività inesauribile.

Varie le fasi e le giustificazioni di questo amore settecentesco per il Furioso: incontro di estro e di lucidità intellettuale, di sorriso spregiudicato, di agilità musicale e di evidenza figurativa nel periodo «rococò» e illuministico; libertà fantastica, impeto creativo al di là di ogni soggezione a regole nel preromanticismo. Cosí da una parte si può cominciare col ricordare la valutazione fortemente positiva di Gian Vincenzo Gravina, che sottolineava soprattutto la spontaneità e la grazia nativa del poema. E poi, l’acuta intuizione critica di Antonio Conti precorritrice delle piú feconde formule moderne riguardo alla fusione di «naturale» e di «meraviglioso», anche se per altri rispetti troppo legata ai limiti di una poetica classicistica: «Impareggiabile è il suo poema per la facilità, eleganza e soavità del verso, sia per la varietà e verità de’ costumi introdottici, sia per la novità dell’invenzione, in cui con arte finissima accoppia il verisimile col meraviglioso, in modo che tesse un incanto che non dà tempo di riflettere alla menzogna poetica»[3]. Né andrà scordato il forte amore che per il Furioso mostrò Voltaire, che da un primo insoddisfacente giudizio passò ad un piú forte riconoscimento della poesia ariostesca nel Dictionnaire philosophique del 1771 («sublime et plaisant», capace di esprimere le cose piú sublimi senza sforzo è per lui l’Ariosto).

D’altra parte, nella fase preromantica del Settecento, particolare rilievo ha l’adesione entusiastica del Baretti, magari legata ad una pericolosa insistenza su di una ispirazione senza controllo, sulla immedesimazione del poeta col suo fantasma, con la situazione poetica, ma altamente cosciente della grandezza eccezionale dell’arte ariostesca (dice dell’Orlando che «non dovrebbe esser letto che da quelli, i quali hanno fatto qualche cosa di grande a pro della patria, per premio e ricompensa loro»[4]). E ancora il grandissimo Goethe sentí, con significativa consonanza, la vastità e la varietà umana e poetica del mondo ariostesco, nella sua nativa grazia sorridente, nella sua gioiosa libertà fantastica, nella sua spontaneità ricca di valore umano, descrivendolo appassionatamente nella IV scena del I atto del suo Tasso (1790).

Agli inizi dell’Ottocento quel grande critico che fu Ugo Foscolo, nel suo Saggio sui poemi narrativi e romanzeschi italiani, riprese e rilanciò spunti ed intuizioni settecentesche in una geniale comprensione dell’ordine profondo e libero del poema («nell’istante medesimo che la narrazione di un’avventura ci scorre innanzi come un torrente, questo diventa secco ad un tratto, e subito dopo udiamo il mormorio di ruscelli di cui avevamo smarrito il corso, desiderando pur sempre di tornare a trovarlo»[5]) e della singolare natura del mondo poetico ariostesco in cui le cose piú irreali sono rappresentate «come se fossero creazioni fantastiche veramente della natura»[6] (con una ripresa generale delle intuizioni del Conti su di un piano critico piú sicuro e in un momento storico piú propizio ad una vera valorizzazione dell’accordo creativo natura-fantasia). Mentre egli sapeva dare anche, nella Notizia intorno a Didimo Chierico, una vivissima immagine poetica della sua comprensione della poesia ariostesca, scrivendo a proposito di quel personaggio autobiografico: «Avea non so quali controversie con l’Ariosto, ma le ventilava da sé; e un giorno mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, esclamò: cosí vien poetando l’Ariosto!»[7].

La viva considerazione del Foscolo si approfondiva, in epoca romantica, mediante una nuova attenzione storico-filosofica al rapporto tra il Furioso e il Rinascimento, alla luce di un processo storico-ideale, in cui andava compreso il valore dell’«ironia» ariostesca: motivo questo particolarmente approfondito dall’idealismo tedesco, anche se col pericolo di formulazioni schematiche e sociologiche, astraenti da una lettura viva e puntuale. Cosí Hegel individuava nell’«ironia» ariostesca il dato della «dissoluzione della cavalleria» medievale nella nuova coscienza rinascimentale: dissoluzione che diventava il motivo storico accomunante in fasi successive Ariosto, Cervantes e Shakespeare.

Con una piú viva adesione, romanticamente atteggiata nello sviluppo di una storia ideale della nazione italiana, Vincenzo Gioberti riecheggiava poi gli spunti hegeliani in un discorso pieno e maturo, ricco di fermenti e di spiegate intuizioni, individuando nel Furioso l’affermazione potente del mondo sensibile («poeta della fisica» l’Ariosto, come Dante era stato «poeta della metafisica»), di una libertà sciolta da ogni legge positiva estrinseca, come viva sostanza presente al fondo del liberissimo spaziare del poeta in un mondo aperto e sconfinato, nelle coordinate di una «geografia» vastissima e pur reale, e del suo stesso atteggiamento di fronte alla cavalleria, ironizzata in quanto aveva di rigido e di medievale, amata e vagheggiata per la sua allusione di libertà e di avventura. «Ironia» e amore per la cavalleria sono per il Gioberti uniti «perché questi elementi rampollavano da un oggetto unico, cioè dal tipo cavalleresco ridevole in quanto manca di condegno scopo, bello e attrattivo in quanto abbonda di forza, di spirito, ed è sprigionato dalla prosaica realtà della vita odierna sí che nasce quella fusione intima dei due componenti, quella armonia e lucidità di concetti, quella fluttuazione dilettevole fra la gravità e il riso, che si risolve per chi legge in un’impressione di gioia pacata e sorridente, per chi scrive in un’ironia dolce, arguta, sarcastica, leggiadramente maliziosa»[8].

La sintesi piú alta della critica ariostesca dell’età romantica fu quella di Francesco De Sanctis, maturata attraverso lunghe meditazioni sul poema, di cui abbiamo prova nello schema di alcune lezioni tenute nella scuola napoletana prima del ’48 e nel Saggio sulla poesia cavalleresca, frutto delle lezioni zurighesi del ’58, e realizzata nel bellissimo capitolo dedicato al Furioso nella Storia della letteratura italiana. In questo capitolo egli partiva dal sentimento della piena storicità del poema, che era la conquista piú sicura della critica romantica. La sua visione moralistica della civiltà del Rinascimento gli impediva però una valutazione totalmente positiva dell’umanità del capolavoro (e lo allontanava cosí dall’accertamento del sostrato di affetti e di sentimenti in esso presente, su cui pure egli aveva insistito nelle lezioni zurighesi del ’58, fino alla famosa esclamazione: «Sentite quanto cuore aveva l’Ariosto!»[9] a proposito dell’episodio della morte di Zerbino); e la contraddizione tra la sua viva coscienza della grandezza dell’opera e quella impostazione moralistica («Questo mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore [...]»[10]) lo spingeva alla assai pericolosa formula dell’«arte per l’arte», fino a fare dell’Ariosto un puro artista, privo di forti contenuti sentimentali, piú «artista» che «poeta». E d’altra parte, per cogliere piú a fondo l’essenza di quella poesia cosí grande e cosí difficile nella sua apparente semplicità, al di là dell’insistenza sull’«ironia» e sul «riso» ariostesco come testimonianza dell’intelligenza superiore del secolo, egli sviluppò ancora largamente il motivo critico della assoluta «obbiettività» di quell’arte, della sua perfetta aderenza alla naturalezza degli oggetti, delle cose.

Nonostante i pericoli che queste formulazioni desanctisiane presentavano, esse rimasero per lungo tempo le enunciazioni piú valide e piú avanzate della critica ariostesca. L’età positivistica infatti, con la sua piatta aderenza ai fatti materiali e con la sua incapacità di sintesi storica, doveva limitarsi a ricerche erudite o a ripetizioni di luoghi comuni della critica precedente. Assai famoso è, tra i saggi di questo periodo, il libro del Rajna, Le fonti dell’Orlando Furioso, ricerca minutissima e utilissima ma assurda nelle sue conclusioni: inferiorità del Furioso rispetto all’Innamorato del Boiardo (considerato come culmine del puro genere cavalleresco), appunto per una scarsa capacità di invenzione di fatti e di trame esterne mostrata dall’Ariosto. Conclusioni assurde che anche allora trovarono precise e sensate obiezioni da parte del Carducci e del Cesareo.

Toccò al Croce il compito di riprendere le posizioni desanctisiane e di farne il punto di partenza per una nuova fase della critica ariostesca, puntando con maggior decisione sulla individuale originalità del poeta e sulla serietà e solidità del suo mondo poetico. Nel suo celebre saggio del 1917, raccolto poi (dopo la sua prima apparizione nel 1918, sulla «Critica») nel ’20 nel volume Ariosto, Shakespeare, Corneille, egli intese cercare una formula critica piú intera ed esauriente, opposta al rischio di una considerazione puramente formalistica («l’arte per l’arte») e a quello di un grezzo contenutismo, presente in molti saggi e studi del tempo. Tale formula – amore per l’armonia cosmica ritrovata nelle apparenti contraddizioni della vita, come contenuto profondo del poema e «cuore del cuore» dell’Ariosto in accordo con la tensione della sua epoca all’armonia – aveva un suo forte fascino e una sua incisività, nella viva simpatia del Croce per il mondo ariostesco, non solo criticamente individuato, ma fortemente amato e sentito vicino. E nonostante i pericoli di una coincidenza tra questa definizione della poesia ariostesca nel suo sentimento animatore e una piú larga indicazione (l’«armonia cosmica») valida per la poesia non del solo Ariosto (pericoli che il Croce cercava di evitare in una continua cura di precisarne il carattere, i limiti, la portata), la formula crociana ebbe il valore altissimo di una intuizione coerente ed organica sulla cui base si mossero – con aggiunte e specificazioni, e con una ricchezza di analisi diretta, motivata dall’esigenza di un contatto piú minuto col mondo ariostesco – le successive interpretazioni della critica idealistica.

L’Ambrosini ebbe a definire e a descrivere il mondo ariostesco come un «terzo mondo» fuori della storia e del tempo detto comunemente cavalleresco, ma in «realtà regno del naturale meraviglioso» (con una significativa ripresa della formula foscoliana). Nel frattempo Attilio Momigliano, nel suo Saggio sull’Orlando Furioso, articolava con grande finezza la sua analisi di quello stesso mondo di armonia e di naturale-meraviglioso, splendida fusione di «realtà» e «sogno», visto da lui con una larga ricchezza di sfumature sentimentali, di affetti appassionati e perfino tragici, su cui era certo opportuno richiamare l’attenzione, anche se la sua insistenza su di essi finiva per essere eccessiva, in un romanticizzamento che inteneriva spesso il limpido tessuto del poema.

Ma la formula crociana, pur approfondita in queste e altre riprese e analisi della critica idealistica, aveva un fondamentale pericolo di astrattezza e di genericità nella mancata precisazione interna dell’armonia ariostesca, mèta della tensione del poeta in una complessa operazione artistica in cui egli volle tradurre esperienze e ideali personali e storici da misurare e individuare piú concretamente e alla luce di un Rinascimento piú complesso e piú ricco di quanto potrebbe risultare solo dalla terminale indicazione dell’armonia. Si trattava insomma di condurre un’operazione critica piú complessa e piú storica, di guardare di piú alla poetica ariostesca nella sua genesi entro la storia del poeta e del suo tempo e nella sua direzione artistica, senza con ciò ricadere in un rozzo sociologismo e determinismo (come quello di chi, in tempi abbastanza recenti, ha voluto spiegare il Furioso come espressione di una diagnosi della situazione sociale-economica del contado ferrarese di primo Cinquecento!) o tornare, per vie magari nuovissime, ad una vecchia considerazione formalistica e descrittiva dello stile ariostesco. D’altra parte il lavoro sempre piú aggiornato intorno ai testi, allo stile e alle diverse redazioni del poema (dall’attività infaticabile del Debenedetti fino a quella recentissima del Segre) può chiarire sempre meglio il valore dell’ars ariostesca purché intesa nel suo significato di poetica, nella sua piena e sicura storicità.

Sulla via di questa revisione piú concreta e piú storica della formula crociana (accompagnata dall’esigenza di una piú approfondita considerazione critica delle opere minori – troppo trascurate dal Croce –, in modo da riportarle nell’ambito piú vivo della storia della poesia ariostesca) si sono mosse negli ultimi anni le forze della critica piú moderna.

In questa direzione ho tentato di operare col mio Metodo e poesia di Ludovico Ariosto (1947), teso ad una definizione della storicità e dell’originalità dell’opera ariostesca, in tutto l’arco del suo svolgersi, con particolare attenzione a ritrovare il segno di una «poetica» nelle linee di un metodo creativo coerente e concreto; e ho potuto riprendere e insieme modificare la formula crociana nel senso di una poesia come espressione del ritmo vitale nella sua varietà, operante nella costruzione di un mosso e aperto sopramondo rinascimentale, capace di fondere naturalismo e platonismo in una superiore unità narrativa e poetico-musicale.

In una simile direzione si è poi mosso Lanfranco Caretti, in una sua introduzione ad un’edizione delle opere ariostesche del 1954, definendo, come vera materia del poema, la «moderna concezione della vita e dell’uomo», che si risolve in «un’apertura serena e cordiale verso il mondo», nella tendenza ad «assumere lietamente nell’opera tutta intera la natura», costituendo un’unità che è «tutt’altra cosa dall’unità di tipo medievale, immobile e con un centro fisso e prestabilito. È, proprio all’opposto, un’unità dinamica risultante dalla serie infinita dei moti della vita universale, compresenti nella loro totalità all’intelletto dello scrittore che li abbraccia e li rappresenta nei loro rapporti sempre diversi e inesauribili»[11].

E Cesare Segre, in una introduzione ad un’altra edizione ariostesca (1964), ha incentrato la sua interpretazione della personalità dell’Ariosto sotto il segno del «dilemma azione-contemplazione», che delinea contrasti che trovano la loro piú vera armonizzazione nel poema, dove, accettato un mondo e una materia particolare, l’autore può obbedire agli opposti richiami della fantasia e della realtà, coinvolgendo il lettore «nella spirale: distacco-rispecchiamento idealizzante-considerazione realistica, che sintetizza i rapporti con la materia narrativa, facendogli godere, proprio come tali, le incursioni verso l’iperbole o gli abbandoni all’immaginazione, ma richiamandolo all’ordine quando egli stia per toccare il terreno della verità»[12].

Le pagine che seguono, e che riprendono in parte i risultati raggiunti dal mio saggio del ’47, vogliono costituire un invito ad una lettura integrale dell’Orlando Furioso, nei suoi profondi significati poetici e storici: io credo infatti che una delle ragioni dello scarso affiatamento tra i lettori non specialisti e il poema nasca proprio dalla cattiva lettura, di tipo unicamente antologico, che se ne fa nelle scuole: lettura che si ferma quasi sempre soltanto agli episodi piú legati alle vicende della trama fondamentale. Occorre invece una lettura intera, organica: vedremo che il Furioso è proprio una opera cosí organica, cosí basata su di un ritmo generale, che staccarne delle parti è un’operazione che rende quasi impossibile comprenderne a fondo il respiro unitario.

Una lettura integrale può costituire per tutti un’altissima lezione di poesia; di una poesia che implicitamente, spesso, è anche messaggio di vita, in quanto nella sua perfezione l’Orlando Furioso è una testimonianza a favore di una fiducia sostanziale nella vita, una accettazione intera e antimetafisica della condizione dell’uomo, nella sua dignità, pur nella riconosciuta labilità di tutte le stesse sicurezze umane.


1 Il titolo dell’opera, oltre che un richiamo al poema del Boiardo, l’Orlando innamorato, da cui veniva ripresa l’azione, costituisce anche una ripresa di titoli di tragedie classiche, quali l’Erakles mainomenos (Ercole impazzito) di Euripide, e soprattutto l’Hercules furens (proprio «furioso») di Seneca.

2 Nel capitolo attribuito al Doni nelle Rime piacevoli del Ruscelli, Vicenza, Barezzi, 1603.

3 A. Conti, Discorso sopra la italiana poesia, in Prose e poesie, Venezia, Pasquali, 1756, vol. II, p. 234.

4 G. Baretti, Frusta letteraria, a cura di Piccioni, Bari, Laterza, 1932, vol. II, p. 185.

5 In Opere, ed. naz., vol. XI. Saggi di letteratura italiana, a cura di C. Foligno, Firenze, Le Monnier, 1958, t. II, pp. 122-125 nell’originale in inglese; la traduzione italiana da cui cito è nella precedente edizione delle Opere, a cura di F.S. Orlandini e E. Mayer, Firenze, Le Monnier, 1940, vol. X, pp. 183-184.

6 Opere, ed. naz. cit., vol. XI, p. 122.

7 In Opere, ed. naz., vol. V. Prose varie d’arte, a cura di M. Fubini, Firenze, Le Monnier, 1951, p. 181.

8 V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, Torino, UTET, 1920, vol. III, pp. 30-31.

9 In Opere, a cura di C. Muscetta, vol. VII, a cura di N. Borsellino, Torino, Einaudi, 1965, p. 187.

10 Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1954, vol. I, p. 41.

11 In Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1961, p. 36

12 In Esperienze ariostesche, Pisa, Nistri-Lischi, 1966, p. 20.